Il lungo addio
Mia mamma è morta durante la notte. Quando sono arrivata a casa, era già stata composta e indossava il vestito che aveva al mio matrimonio nel giugno scorso, su cui era rimasta una macchia del caffè bevuto quel giorno. Papà me l’ha mostrata sollevando un lembo della gonna, e nel frattempo piangeva — non l’avevo mai visto piangere prima, ma del resto eravamo in territorio inesplorato, ho pensato accarezzando la testa di mia madre, lo stesso gesto di futile cura con cui rassetto i capelli di mia figlia. Alle 11 del mattino è arrivato il titolare delle onoranze funebri, un energico signore sulla settantina, canuto e gentile, efficacissimo. Ha ripercorso con noi i passi successivi: la cremazione l’indomani, le ceneri restituite entro alcuni giorni. Infine, l’inumazione. Qui ha esitato: “Lei mi ha detto” — si è rivolto a mio padre “che sua moglie desiderava riposare al fianco della sua mamma, al cimitero di San Matteo, a Viadana”. Papà ha confermato. “È lontano” ha aggiunto l’uomo, e qui ha preso a dividersi con lo sguardo tra mio padre e me “Quando anche lei, ecco…” e a quel punto si è soffermato su di me, e io ho compreso che mi stava mettendo in guardia da un futuro di pendolarismo del 2 novembre: insomma dopo la morte di mio padre sarei stata costretta ad andare a Cantù per posare un fiore sulla sua tomba e poi fino a San Matteo dalla mamma. La naturalezza con cui ci sottoponeva pure la futura dipartita di mio padre nel giorno della morte di mia madre mi ha disarmato. Ho detto “Magari concentriamoci su una sepoltura per volta” e poi “a quella di papà ci pensiamo un altro momento, magari l’anno prossimo” e mentre lo dicevo gli ho stretto la spalla e lui ha riso, come speravo. Ho sentito una scossa elettrica di amore e di tenerezza, insieme al compiacimento che provavo quando, da bambina, dicevo qualcosa che lo divertiva.
A mia madre fu diagnosticata la sclerosi multipla quando io non avevo ancora compiuto 14 anni, stavo facendo gli esami di terza media. Lei ne aveva 40, età che allora mi sembrava veneranda: è quasi la mia oggi, e ovviamente ora so che vuol dire essere giovani, perlomeno nei sensi in cui questa parola indica qualcosa di rilevante (la salute, le energie). La sua malattia è stata un calvario: per lei, per mio padre — che ha voluto sempre occuparsi di lei in maniera quasi esclusiva — e terza ci sono anche io, che sono cresciuta e diventata adulta avendo sempre di fronte a me il peggioramento delle sue condizioni, l’impoverimento della sua vita. C’è ben poco che non ho fatto per via della sua malattia, ad esempio andare a vivere all’estero: quanto al resto, per i miei genitori è sempre stato fondamentale che le sue condizioni e le difficoltà del loro ménage non fossero un impedimento per me. In un libro di viaggi che ho scritto c’è un dedica per loro, dice: “A mio padre e a mia madre, che non mi hanno mai detto: resta”.
Il lutto che vivo oggi è l’ultima fetta di un dolore porzionato in venticinque anni. Già alla diagnosi qualcosa di mia madre è andato perso, quando ha sviluppato una depressione che, tra fasi più mordaci e altre più blande, non è mai davvero guarita. Poi sono seguiti altri congedi: l’ultima volta che siamo andati in vacanza, l’ultima volta che abbiamo fatto insieme una passeggiata all’aperto, l’ultima volta che ha cucinato per me, l’ultima volta che siamo andati a cena fuori. Ma anche, l’ultima volta che ho pensato che la ricerca scientifica su questa malattia sarebbe progredita in tempo utile per lei: per molti anni dopo la sua diagnosi ho avuto un Google Alert impostato con una serie di parole chiave — cellule staminali, molecole che sembravano promettenti, farmaci che avrebbero dovuto fermare il decorso della malattia. Un giorno ho compreso che non avrebbe fatto in tempo a giovarne, e non è stato graduale, bensì una consapevolezza improvvisa: perché a quel punto non era una cosa da capire, ma solamente da accettare.
In anni recenti, la malattia ha cominciato a peggiorare repentinamente, e sono venuti altri distacchi. Ha cominciato a soffrire di afasia, articolare le parole le risultava progressivamente più tortuoso — proprio lei, che aveva insegnato italiano tutta la vita e aveva una fissazione per le parole “giuste” per tutto: scherzavo spesso sul fatto che quando, da bambina, correvo nel loro letto nel mezzo della notte dicendo “Mamma, ho fatto un incubo”, lei rispondesse “Si dice ho avuto un incubo”. Prima abbiamo smesso di parlarci al telefono, un rito quotidiano sempre onorato, perché era diventato troppo frustrante per lei. Poi anche di persona la conversazione è diventata sempre più in una sola direzione: mi sedevo vicino a lei e le raccontavo delle cose, tenendola per mano. Con il tempo ho diradato le mie domande, perché l’insofferenza che mostrava quando la parola cercata non affiorava alla bocca mi provocava una pena infinita (“indicibile”, avevo scritto in prima stesura). Negli ultimi mesi, infine, era subentrata la disfagia: faticava a deglutire, e a mangiare abbastanza; aveva cominciato a ritirarsi in sé stessa, dormendo sempre di più: si concentrava su di noi soprattutto quando a casa c’era Emilia. Si preparava ad andare altrove.
Io convivo con la mancanza e la nostalgia di mia madre già da molto tempo, ma questo è l’ultimo distacco, e ha il suo peso specifico che avverto sulle spalle, nell’enorme stanchezza che mi sembra il sintomo più univoco del mio lutto. Faccio poco, quel che devo e quel che riesco. Il resto lo fa Paolo, che da settimane accompagna Emilia a scuola e la va a prendere quasi tutti i giorni, porta fuori il cane mattina e sera, cucina e fa le lavatrici, e quando gli dico: devi essere molto stanco, dice solo: non ti preoccupare per me, io sto bene. Trovo consolazione in mio padre, nei gesti di accudimento che mi consente di avere per lui. Sabato scorso è venuto a pranzo a casa nostra a Milano: non c’era mai stato in tutti gli anni che abitiamo qui, perché non voleva fare cose insieme a noi da cui lei fosse esclusa. Abbiamo invitato alcuni suoi amici, io ho fatto la pasta fresca in casa e il ragù vegano di Ottolenghi, la sera mi ha scritto per dirmi che tutti facevano i complimenti per la mia cucina. Mi sono sentita bene.
Soprattutto, trovo consolazione in Emilia, che mi ama e ha bisogno di me, e mi mostra con la sua risolutezza bambina che c’è solo una direzione, avanti, e anche se adesso prevale un senso di vuoto, il futuro è pieno di lei.
Sui bambini non bisogna gravare, perché sono piccoli; ma se ti ci appoggi piano, con dolcezza, scopri che loro ti portano.